Intervista a Nicholas Parisi
Per il novo appuntamento della rubrica promossa dal Comitato Pari Opportunità UICI Roma sono rimasta in Lombardia. A Bergamo, dove ho incontrato il mio amico Nicholas, ventotto anni, ipovedente.
Federica: La Lombardia è stata la regione più colpita da questa pandemia. Bergamo è stata falcidiata durante la prima fase, tu come hai vissuto quel periodo?
Nicholas: difficile da spiegare. Da queste parti il Covid è arrivato a metà febbraio, all’inizio non capivamo cosa stesse accadendo, quando lo abbiamo compreso ho avuto paura; in primo luogo temevo di perdere le persone a me care, in secondo luogo avevo paura di poter essere io a lasciarle. Il metro che utilizzavo per comprendere l’entità della cosa era il numero di ambulanze che passavano, nella fase iniziale se ne contavano solo poche in più rispetto al solito, poi sono sempre più aumentate fino ad arrivare ad essere un suono praticamente costante. Il tutto ovviamente amplificato dal silenzio che si faceva via via più assordante. Dopo qualche giorno dall’inizio della quarantena mi ha telefonato una cara amica e mi ha comunicato lo stato di malattia e conseguente isolamento domestico del marito, chiedendomi inoltre se fossi disposto a prendermi cura dei loro figli qualora si fosse ammalata anche lei. Nel frattempo la città diventava sempre meno riconoscibile, strano fenomeno cui assistere il silenzio di giorno. L’aeroporto taceva e il traffico non esisteva più. quando sotto casa non passavano le ambulanze, nessuno schiamazzo, nessun segno di vita, solo il silenzio e altre ambulanze lontane. La sera, alle dieci, il “campanone” di Città alta suonava i suoi tradizionali cento rintocchi con i quali, in tempi più lontani, si comunicava la chiusura delle porte della città. Parevano suonare per dire che la città era ancora viva e nel silenzio sembravano ancora più forti.
F: Sentendo questi racconti mi sono tornati i brividi. Tornando alla nostra intervista, tu vivi da solo, ma hai un buon residuo visivo e ciò ti consente di essere completamente autonomo sia fuori che dentro casa, tanto che fai persino le pulizie e so che sei anche un ottimo cuoco, tanto perché, come cantava Caparezza, “un vero uomo deve lavare i piatti”!
N: Mi ritengo abbastanza autonomo sia fuori che dentro casa; ho un ottimo campo visivo che mi consente di stare per strada in sicurezza senza bastone bianco, i possibili ostacoli lungo il cammino li aggiro facendo attenzione, come per gli attraversamenti dove però prediligo le strisce pedonali. Mia madre non sarebbe affatto soddisfatta di come pulisco casa! Aspirapolvere e straccio non sono un grosso problema, mi piace fare le lavatrici anche se non amo stendere e detesto lavare i piatti! In cucina mi piace sperimentare, ma non sono certo un Carlo Cracco; più un Cannavacciuolo, ma per la stazza!
F: pure simpatico il nostro Nicholas. Il tuo grande amore per i motori ti ha portato a guidare una Ferrari e a pilotare un aereo. Raccontaci queste straordinarie esperienze.
N: La Ferrari è stato il regalo di maturità di mio padre. Da sempre appassionato di motori in generale, credo che chiunque ami le auto vorrebbe provare l’emozione di sentire qualche cavallo di razza sotto al cofano. Di certo sono di parte, ma Ferrari è Ferrari e i Cavalli Ferrari hanno qualcosa in più! Ci siamo recati presso il motodromo di Castelletto di Branduzzo (Pavia); dopo il breafing iniziale con qualche insegnamento teorico, siamo passati alla pratica: una decina di giri a bordo di una monovolume guidata da un pilota professionista per prendere confidenza con il tracciato, quando l’intera pista è stata chiusa, ho capito che toccava a me. 570 cavalli sotto il sedere sono qualcosa che non puoi capire a pieno fino a quando non sei tu a farli galoppare. Una macchina davvero da paura! Precisa in curva, incollata a terra, quando acceleri è come una fucilata e quando freni basta accarezzare il pedale per ottenere un significativo rallentamento. Il volante, rigido ad alta velocità, diventa incredibilmente morbido in curva e nelle correzioni. Questa macchina ti parla! Descrivere l’auto è facile, raccontare come è stato lo è un po’ meno. Sicuramente un’emozione fortissima, ma anche tanta tensione: sono cosciente dei miei limiti e sarei uno stolto a non tenerne conto, per non parlare del fatto
Nichols alla guida della Ferrari
che se finisci contro un guardrail fai danni per un sacco di soldi. Senza ombra di dubbio è stata tra le migliori sensazioni che ho provato nella mia vita!
L’esperienza dell’aereo l’ho fatta diversi anni dopo all’aeroporto di Bergamo Orio al Serio dove, presso l’aeroclub civile alcuni piloti avrebbero spiegato i rudimenti del volo. Durante la mattinata è stato messo a nostra disposizione un simulatore di volo e nell’attesa di provarlo ho rivolto alcune domande ai piloti in sala. La fila era interminabile, ma ero deciso a tener duro se non fosse che ad un certo punto ci chiamarono per un giro turistico su un piccolo 4 posti. “Ciao ciao fila…” Saliti a bordo, il pilota sul sedile del comandante, quello a sinistra, ed io su quello del secondo ufficiale, abbiamo iniziato la fase dei contatti con la torre di controllo, ci siamo identificati e abbiamo riportato il nostro piano di volo. A quel punto il comandante, spiegandomi cosa fare, mi ha invitato a partire e posizionare il velivolo in pista per il decollo che è avvenuto di lì a poco. Ben presto ci siamo trovati a sorvolare città alta; ho provato un senso di assoluta libertà effettuando Cabrate, picchiate e virate libere per saggiare le qualità del piccolo Cessna. Non mi sono accorto di aver sorvolato e girato tutto attorno a città alta, era già il momento di tornare all’aeroporto. La fase di atterraggio è stata quella più difficile; l’unica cosa che conta è far leva sulla propria sensibilità, percepire l’intensità della discesa e di conseguenza correggere fino ad atterrare dolcemente sull’asfalto. Ho toccato prima con la ruota destra dell’aereo e solo in un secondo momento anche con la sinistra e, devo ammetterlo, è stato un atterraggio un po’ duro. Uno di quelli per cui non si fa l’applauso al pilota.
F: Grazie per questi racconti avvincenti! Da qualche anno lavori nelle scuole con bambini e ragazzi affetti da grave disabilità come l’autismo. Riesci a rapportartici adeguatamente? Che attività svolgete insieme?
N: Non credo ci sia una maniera corretta per rapportarsi “con l’altro”; ciascun individuo ha proprie esigenze e caratteristiche, più o meno affini a quelle delle altre persone. Per questo ogni progetto è personalizzato, anche se, nel mio lavoro, che è quello di educatore, vi sono alcune fasi da rispettare. Principalmente mi occupo di guidare la relazione dei ragazzi nella scoperta dei rapporti con compagni di classe, di scuola e professori. Mi viene assegnata una persona con la quale improntare un progetto educativo. Nell’iniziale breve periodo di affiancamento osservo i comportamenti del soggetto da diversi punti di vista e mi faccio un’idea degli obiettivi che si possono raggiungere. Successivamente redigo il piano di lavoro nel quale metto nero su bianco quali sono gli obiettivi scelti e come intendo lavorare per raggiungerli. In un terzo momento, procedo alla verifica del raggiungimento o meno dello scopo prefissato e decido di conseguenza se riproporre il medesimo lavoro, avendo magari ottenuto un risultato parziale, variare metodo o considerare l’obiettivo non raggiungibile. Questo prospetto si basa ovviamente sulle capacità del soggetto e non è mai definitivo. Si può lavorare sia per il raggiungimento di nuovi traguardi, sia per recuperare capacità che si sono perse, ma anche per mantenere quelle guadagnate da percorsi educativi precedenti.
F: tra i moltissimi problemi che ha fatto emergere questa epidemia, c’è il rapporto con la disabilità; se la didattica a distanza è complicata per bambini e ragazzi normodotati possiamo immaginare la difficoltà per gli altri. Tu sei riuscito a lavorare ugualmente in questi mesi?
N: Fin da quando siamo stati confinati nelle nostre case a quando è iniziata la didattica a distanza non ho lavorato, poi abbiamo iniziato a strutturare dei momenti dedicati, in una conferenza uno a uno, dove però è venuta ovviamente a mancare la sfera relazionale. Ci siamo concentrati più che altro su aspetti organizzativi e prevalentemente didattici; si ripassava storia o scienze, ci sono stati anche momenti dedicati al confronto sulle impressioni riguardo ciò che stava accadendo intorno a noi. Decisamente la pandemia ha interrotto bruscamente e azzerato tutto il lavoro svolto dall’inizio dell’anno scolastico. A settembre si è dovuto ripartire da capo con la fortuna che per gli studenti con bisogni speciali, il governo ha decretato la didattica in presenza. Restavano però a casa gli altri, continuando a impedire la relazione se non tra il singolo e i docenti. Quando sono iniziate le lezioni in presenza per tutti al 50% la questione è cambiata. Non si era certo vicini alla normalità, però era già qualcosa di diverso rispetto a una lezione, ad esempio di matematica, con un solo studente in classe e due docenti; perché anche se non sono effettivamente professore, spesso è così che mi vedono i ragazzi. Chi non si sentirebbe a disagio?
F: Hai ragione e mi auguro periodi come questi non si verifichino più. Io ti ringrazio per questa bell’intervista e ti faccio un grande in bocca al lupo per tutto!
N: Grazie a te, è stato un piacere!
di Federica Carbonin