Maria Esther parla del tennis per ciechi
Eccoci giunti al quinto appuntamento con SI PUO’ FARE, la rubrica ideata dal Comitato Pari Opportunità UICI Roma. Oggi ho incontrato Maria Esther Nakano, ipovedente, cinquantanove anni portati benissimo e una grinta da vendere.
Federica: ciao Maria Esther. Non sei una falsa invalida ma una falsa milanese dato che le tue origini sono sudamericane, se non erro.
Maria Esther: vivo a Milano ormai dal 1990, ma le mie origini sono un bel misto di culture: i miei genitori sono giapponesi e io sono nata e cresciuta in Argentina.
F: wow! Argentina e Giappone, due tra i Paesi che mi piacerebbe molto visitare. Immagino tu sarai stata anche in Giappone, ti è piaciuto?
M. E.: sono stata solo una volta e mi è piaciuto, i paesaggi in particolare sono molto belli, ma non ci tornerei. La loro cultura è molto diversa sia da quella argentina che da quella italiana che invece sono molto simili. Se vai da turista ti trattano “con i guanti bianchi”, ma io ho i loro tratti somatici, parlo il giapponese quindi pretendevano determinate cose da me. Cose che io non potevo fare come, ad esempio, leggere gli ideogrammi.
F: Giappone, Argentina, Italia, perché hai scelto di stabilirti nel Bel Paese?
M. E.: in Argentina lavoravo nel turismo e avevo la possibilità di viaggiare, volevo conoscere quanto più potevo dell’Europa e questo mi ha portato a prendere un permesso e sono stata due mesi in giro. Trascorso un anno mi sono trasferita a Milano perché ci vivevano alcuni miei amici argentini. L’intenzione iniziale era quella di continuare a viaggiare per altri due o tre anni e poi tornare a Buenos Aires, ma sono ancora qua!
F: un bel lavoro quello nel settore turistico, immagino tu lo svolgessi prima di perdere la vista. Straniera e disabile: una “doppia condizione di diversità”, hai trovato difficoltà ad integrarti in un altro Paese?
M.E.: nessuna difficoltà; le prime cose che ho fatto sono state studiare la lingua e tentare di socializzare con le persone del posto, sia per migliorare il mio livello di italiano, sia per evitare di rimanere dentro la “collettività argentina”. Quando sono arrivata in Italia avevo soltanto una gravissima miopia, dopo una decina di anni sono subentrate altre problematiche e sono diventata ipovedente.
F: capisco, quindi non puoi fare il raffronto sulla condizione dei disabili visivi tra Argentina ed Italia.
M.E.: no; dopo due anni di laser ed iniezioni di farmaci, con gli oculisti abbiamo capito che la mia maculopatia non si sarebbe arrestata, oggi vedo solo macchie con l’occhio sinistro, ma il destro mi consente di distinguere le sagome delle persone ed oggetti fino a due tre metri di distanza. La gradualità del peggioramento mi ha aiutato ad essere serena nei confronti di questa “mia nuova situazione”.
F.: Ti sei rivolta a qualche associazione o struttura per farti aiutare?
M.E: sì, all’Istituto dei Ciechi di Milano dove ho iniziato il corso di centralino che ho concluso nel 2015 diventando poi guida di Dialogo nel Buio.
F: molto interessante l’esperienza a Dialogo nel Buio, ho avuto modo di farla più di una volta. Arriviamo a parlare dello sport, che ruolo ha avuto nella tua vita? Praticavi qualche disciplina in Argentina?
M.E.: faccio sport da sempre, in Argentina praticavo la pallavolo a livello agonistico e giocavo a tennis per passione.
F: una passione che hai continuato a coltivare dato che hai scelto di cimentarti con il tennis per ciechi, come ne sei venuta a conoscenza?
M.E.: In Italia il tennis per ciechi esiste da circa dieci anni, quattro anni fa ho sentito della demo che si sarebbe svolta nella palestra dell’istituto dei ciechi di Milano. Vi ho preso parte e ho subito deciso di giocarlo perché per noi ipovedenti non è tanto diverso rispetto al “tennis tradizionale” che avevo praticato in passato.
F: non è tanto diverso, ma come gli altri sport “adattati” per noi avrà qualche piccola peculiarità?
M.E.: certo. Regole e colpi non cambiano; punti a 15, game, set, servizio, diritto, rovescio. La differenza principale è costituita dalla pallina, sonora, più grande e più leggera. Anche il campo ha dimensioni inferiori; ci sono due misure a seconda della categoria, una per i B1 (non vedenti) ed un’altra per i B2-B3-B4 (ipovedenti divisi per residuo visivo); le linee del campo sono segnalate da corde in rilievo in modo da consentire al giocatore di trovare la propria posizione.
Nel tennis degli ipovedenti possono esserci scambi anche molto lunghi, possibili grazie al doppio rimbalzo e al fatto che abbiamo una prospettiva del campo. Invece, il tennis dei ciechi assoluti si basa soprattutto nel gioco di servizio e risposta, sono permessi tre rimbalzi che permette ai giocatori capire direzione e forza della pallina.
F: uno sport giovanissimo che si pratica in poche città italiane. Ci racconti com’è nato?
M.E.: in realtà non è così tanto giovane, negli altri Paesi è molto diffuso e si pratica da tempo. Nasce in Giappone negli anni ’80, dalla voglia di Miyoshi Takei di giocare a tennis come i suoi fratelli nonostante la sua mancanza della vista. La sua caparbietà e la collaborazione di un insegnante di educazione fisica hanno fatto in modo che questo sport venisse adattato; diversi i miglioramenti applicati negli anni per giungere alla fine al tennis per ciechi che conosciamo oggi.
Per capire la partecipazione a livello internazionale, bastano i numeri del mondiale di Spagna 2019; più di quindici Paesi e oltre novanta giocatori. L’Italia ha portato undici tennisti. Io ho partecipato con l’Argentina. Ho trovato un livello molto più alto di quanto mi aspettassi, uno stimolo in più per continuare a migliorarsi.
Attualmente il tennis per ciechi si gioca solo in alcune città del settentrione: Aosta, Bergamo, Bologna, Milano, Pordenone e l’ultima arrivata, San Remo. Nel futuro prossimo ci auguriamo di portarlo nella Capitale e poi, perché no, per una “reazione a catena” in numerose altre città, sperando che al Terzo Campionato Italiano ci siano tanti giocatori nuovi.
F: in quanto amante dello sport è una speranza che nutro anche io e sicuramente se porterete il tennis per ciechi a Roma verrò a provare. Per il momento ti saluto e ti ringrazio per il tempo regalato a me e ai lettori di SI PUO’ FARE!
Di Federica Carbonin